L’EVOLUZIONE DELL’ONERE DELLA PROVA NEL PROCESSO TRIBUTARIO – di Maurizio Villani e Marta Zizzari

Avv. Maurizio Villani e Dott.ssa Marta Zizzari

 Studio Legale Tributario Villani

 

  1. Premessa
  2. L’onere della prova nel processo civile
  3. L’onere della prova nel processo tributario
    • Ante riforma tributaria: art. 2697 c.c. e relative deroghe tributarie
    • Post riforma tributaria: il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D. Lgs. n. 546/92 introdotto dalla L. 130/2022
  4. Osservazioni conclusive

 

  1. Premessa

L’onere della prova è un principio logico-argomentativo che prevede l’obbligo, per chi vuole dimostrare l’esistenza di un fatto, di fornire le prove dell’esistenza del fatto stesso.

Si tratta, pertanto, di una regola che consente di individuare il soggetto onerato della prova di un fatto controverso e, quindi, di individuare colui sul quale grava il rischio della mancata prova o dell’incertezza del fatto da provare.

Nell’ambito del processo tributario, la trattazione dell’onere della prova non può prescindere dall’analisi della disciplina civilistica e, in particolare, dell’art. 2697 c.c., poiché, prima dell’entrata in vigore della L. n. 130/2022, non esisteva alcuna specifica norma in materia di riparto dell’onere probatorio.

È stata, infatti, proprio la legge di riforma del processo tributario n. 130 del 31 agosto 2022, entrata in vigore il 16 settembre 2022, ad aver introdotto una specifica disposizione in materia nel codice del processo tributario, aggiungendo il comma 5-bis all’art. 7 D. Lgs. n. 546/1992.

  1. L’onere della prova nel processo civile

In ambito civilistico il principio dell’onere della prova trova la sua disciplina nell’art. 2697 c.c. il

quale distribuisce l’onere della prova fra le parti distinguendo, da un lato, i fatti costitutivi e, dall’altro,  i fatti estintivi, modificativi e impeditivi. In particolare, il citato articolo così dispone:

Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.

Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda.

In linea generale, la ripartizione dell’onere della prova tra le parti delineata dal codice civile risponde a principi di opportunità e razionalità, oltre che a concrete esigenze di giustizia. Infatti, è possibile affermare che la regola probatoria di cui all’art. 2697 c.c. è funzionale e razionale, in quanto risponde all’esigenza di assicurare l’equa realizzazione degli interessi sostanziali che vengono in rilievo nell’ambito del processo.

In particolare, ai sensi dell’art. 2697 c.c., gli elementi di una determinata fattispecie si distinguono in fatti costitutivi, estintivi, modificativi o impeditivi; pertanto, mentre la prova dei fatti costitutivi spetta all’attore (art. 2697, comma 1), la prova dei fatti impeditivi, modificativi ed estintivi spetta al convenuto (art. 2697, comma 2).

Più nello specifico, per “fatto costitutivo” si intende l’elemento la cui prova è necessaria poiché concorre a determinare gli effetti materiali previsti dalla relativa norma. Da tanto ne consegue che la prova di tale fatto incombe sull’attore, cioè su colui che agisce in giudizio invocando l’applicazione di quella determinata disposizione.

Invece, sono “fatti estintivi o modificativi” quei fatti che determinano l’estinzione o la modificazione dell’effetto giuridico richiesto dall’attore. In tal caso, l’onere della prova grava sul convenuto, ossia su colui che si oppone alla pretesa avanzata dall’attore.

In altri termini, la ripartizione dell’onere probatorio è dovuta alle posizioni ricoperte dalle parti in ambito processuale, con la conseguenza che l’onere di provare un fatto ricade su colui che invoca proprio quel fatto a sostegno della propria tesi, conformemente al noto brocardo “Onus probandi incumbit ei qui dicit” (cioè “l’onere della prova incombe su colui che afferma qualcosa”); invece, il soggetto che contesta la rilevanza di tali fatti in giudizio ha l’onere di dimostrarne l’inefficacia, o provare altri fatti che abbiano modificato o fatto venir meno il diritto vantato dall’attore.

Secondo l’orientamento prevalente, la regola dell’onere probatorio ha una natura processuale, in quanto va applicata nel processo ed ha come destinatario il giudice, avendo la funzione di indicare al giudice come decidere laddove non ci siano fatti rilevanti, poiché non sufficientemente provati o una situazione di incertezza sull’esistenza o sull’inesistenza di uno dei fatti allegati da una parte.

Tale regola di giudizio è, dunque, strumentale ad evitare l’impasse del giudizio laddove l’espletamento dei mezzi istruttori non si sia rilevato decisivo o laddove la prova manchi del tutto.

Pertanto, è evidente che la funzione della regola dell’onere della prova è quella di impedire al giudice, in ipotesi del genere, di decidere mediante una pronuncia di non liquet (decisione con cui non si stabilisce in maniera definitiva se il diritto controverso esiste o meno), che si porrebbe chiaramente in contrasto con l’art. 24 Cost. e con gli artt. 112 e 227 c.p.c., i quali impongono al giudice, chiamato a decidere sulla domanda, il dovere di assicurare alle parti una pronuncia, o di accoglimento o di rigetto, sulla base delle prove offerte nella causa, nel contraddittorio delle parti.

È evidente, dunque, che il principio di riparto dell’onere probatorio di cui all’art. 2697 c.c. deve essere contemperato al principio di acquisizione probatoria, ai sensi del quale le risultanze probatorie comunque ottenute, quale che sia la parte ad iniziativa o ad istanza della quale si sono formate, concorrono tutte, indistintamente, alla formazione del convincimento del giudice. Ne discende che, il citato principio di acquisizione probatoria, avente fondamento nella costituzionalizzazione del giusto processo, si traduce nel dovere del giudice di pronunciare nel merito della causa sulla base del materiale probatorio ritualmente acquisito con una valutazione globale delle risultanze probatorie.

 

  1. L’onere della prova nel processo tributario

Prima dell’introduzione del comma 5-bis all’art. 7 D. Lgs. n. 546/1992, la materia tributaria era sprovvista di un norma specifica in tema di onere della prova e, pertanto, in virtù del costante richiamo alle norme civilistiche, ha trovato applicazione, anche in ambito tributario, il succitato art. 2697 c.c..

Tuttavia, negli anni, l’istituto dell’onere della prova in materia tributaria è stato oggetto di diverse deviazioni, tra le quali si evidenzia l’orientamento, ormai definitivamente tramontato, che faceva leva sulla cosiddetta “presunzione di legittimità dell’atto amministrativo”, la quale addossava l’onere della prova nel processo tributario “sempre e comunque sul contribuente”, così determinando una sorta di presunzione di legittimità dell’atto amministrativo, che sarebbe risultato, quindi, sino a prova contraria, fondato sia in fatto che in diritto. Secondo tale indirizzo, l’Amministrazione finanziaria, “per la sua stessa qualità di organo del pubblico potere, tenuto ad osservare la legge e privo di un interesse proprio, diverso dall’interesse pubblico, non può normalmente emanare atti di accertamento arbitrari, basati su circostanze di fatto non vere”. In altri termini, sul piano processuale, la presunzione di legittimità faceva gravare sempre sul contribuente l’onere di dimostrare in giudizio l’illegittimità o l’infondatezza dell’atto impositivo.

Tuttavia, tale indirizzo è stato superato mediante alcune sentenze della Cassazione. Tra le prime pronunce di legittimità, si segnala la sentenza n. 2990 del 23 maggio 1979 con la quale Suprema Corte di Cassazione ha, per la prima volta, ritenuto che:

“(…) non può porsi tutto l’onere probatorio a carico esclusivo del destinatario del provvedimento, poiché se egli, per ragioni attinenti esclusivamente alla esecutorietà della pretesa fatta valere dalla pubblica amministrazione, assume la iniziativa del processo, la sua qualità di attore in giudizio non esclude che l’indagine del giudice verta pur sempre su un diritto di credito, i cui presupposti di fatto, secondo le regole generali, debbono essere provati, in caso di incertezza circa la loro esistenza oggettiva, dalla autorità amministrativa che coltiva la relativa pretesa, mentre incombe al destinatario del provvedimento l’onere della prova dei fatti modificativi o estintivi, secondo la disciplina dettata dall’art. 2697 c.c.”.

Questa pronuncia ha rappresentato, dunque, una vera e propria svolta nel processo tributario, poiché ha permesso di valorizzare, ai fini del riparto probatorio, la posizione sostanziale assunta dalle parti nel processo, estendendo l’applicazione al processo tributario della regola generale di cui all’art. 2697 c.c.

Pertanto, ad oggi, non è più fatto controverso che, anche nel rapporto tributario, vale la regola dell’onere della prova dettata dall’articolo 2697 c.c., in base al quale, nelle vicende tributarie, l’Amministrazione finanziaria che vanti un credito nei confronti del contribuente è tenuta a fornire la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa. In applicazione dello stesso principio, spetta al contribuente la prova del fatto costitutivo nelle liti in materia di rimborso.

Del resto, quanto appena detto è stato nuovamente confermato dai giudici di legittimità, con la sentenza n. 29856 del 25.10.2021, con cui la Suprema Corte ha così statuito:

È ormai ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte che, anche nel processo tributario, vale la regola generale in tema di distribuzione dell’onere della prova dettata dall’articolo 2697 c.c., e che, pertanto, in applicazione della stessa, l’amministrazione finanziaria che vanti un credito nei confronti del contribuente, è tenuta a fornire la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa, essendosi ormai da tempo chiarito che la c.d. presunzione di legittimità degli atti amministrativi (un tempo evocata per giustificare la loro idoneità ad incidere unilateralmente nella sfera giuridica altrui) non opera nei confronti del giudice ordinario (v. ex multis Cass. Civ., Sez. 5, n. 1946 del 10/02/2012; Sez. 5, n. 13665 del 05/11/2001; Sez. 1, n. 2990 dei 23/05/1979, Rv. 399324)”.

Pertanto, è chiaro che, per un lungo periodo, nel processo tributario ha trovato applicazione la disciplina civilistica ex art. 2697 c.c., soprattutto perché nel codice del processo tributario non vi era alcuna disposizione in tema di onere probatorio.

Solo con l’entrata in vigore della L. n. 130/2022, di riforma della giustizia e del processo tributario, il legislatore è intervenuto in tema del riparto dell’onere probatorio in materia tributaria aggiungendo il comma 5-bis all’art. 7 D. Lgs. n. 546/1992.

 

  • Ante riforma tributaria: art. 2697 c.c. e relative deroghe tributarie

Come innanzi accennato, prima della novella legislativa del 2022 (ovvero fino al 15 settembre 2022), nel codice del processo tributario non esisteva alcuna norma in tema di onere della prova e il problema relativo alla distribuzione di tale onere veniva risolto facendo riferimento alla disciplina civilistica e, in particolare, all’art. 2697 c.c. (“Chi vuol fare valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda”).

Ebbene, da sempre la giurisprudenza e la dottrina hanno interpretato tale norma attribuendo all’Amministrazione finanziaria l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa fiscale; mentre al contribuente l’onere di provare i fatti impeditivi, modificativi o estintivi della medesima pretesa.

Traslando tale principio civilistico in ambito tributario, ne discende che l’Amministrazione finanziaria che vanta un credito nei confronti del contribuente è tenuta a fornire la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa. In altri termini, spetta al Fisco l’onere di provare la maggiore capacità contributiva del soggetto verificato nonché i presupposti di fatto e di diritto sui quali la pretesa fatta valere nei suoi confronti si fonda.

Tale ripartizione dell’onere probatorio dipende principalmente dalla circostanza che la posizione di creditore e attore sostanziale è rivestita dall’Amministrazione finanziaria; mentre il contribuente riveste la posizione di attore formale. Questo perchè, coerentemente con il brocardo latino “Onus probandi incumbit ei qui dicit” (cioè “l’onere della prova incombe su colui che afferma qualcosa”), nonostante sia il contribuente a proporre il ricorso introduttivo, la parte “qui dicit”, cioè la parte che afferma, è proprio l’Amministrazione finanziaria. Pertanto, il solo fatto di promuovere l’azione non può comportare, sic et simpliciter, l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa dell’Ufficio (come, invece, accadeva in passato).

Ovviamente, la situazione si capovolge qualora il contribuente proponga una domanda di rimborso di una somma versata ma non dovuta oppure qualora, nei casi di istanze di agevolazioni fiscali, ne impugni il diniego. In tale ipotesi, è il contribuente che, vantando una pretesa nei confronti dell’Amministrazione, deve provare l’avvenuto pagamento o la sussistenza delle circostanze che giustificano l’agevolazione fiscale.

In definitiva, la prova dei fatti posti a fondamento della pretesa tributaria grava sull’Amministrazione finanziaria; mentre, la prova dei fatti costitutivi del diritto di rimborso o dell’esenzione e, più in generale, la prova dei fatti che incidono in senso negativo sulla determinazione dell’imposta grava sul contribuente.

Quanto fin qui argomentato rappresenta la regola generale che, tuttavia, sia in ambito civilistico che tributario, è soggetta ad alcune deroghe che comportano l’inversione dell’onere probatorio.

Più nel dettaglio, con specifico riferimento alla materia tributaria, l’assetto della distribuzione dell’onere della prova ha sofferto e soffre di alcune deroghe che trovano la propria fonte o nella legge (c.d. presunzioni legali) ovvero nella giurisprudenza (c.d. presunzioni giurisprudenziali, come l’affermazione del principio secondo cui, per i componenti negativi di reddito d’impresa, l’onere probatorio competerebbe al contribuente).

Al fine di comprendere appieno la questione giova preliminarmente chiarire che, in linea generale, si ha una presunzione qualora, a fronte dell’esistenza di un fatto noto o certo, si desuma, in via di ragionevole consequenzialità, l’esistenza del fatto da provare. Anche nel caso delle presunzioni occorre fare riferimento alla disciplina civilistica e, in particolare, all’art. 2727 c.c., il quale dispone che: “le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato”.

Nel caso in cui il collegamento tra il fatto noto e il fatto ignorato sia stabilito expressis verbis dal legislatore si parla di presunzione legale; invece, nel caso in cui detto collegamento sia compiuto dal giudice si parla di presunzione semplice.

A tal punto, si rende opportuna chiarire che:

  1. le presunzioni legali sono previsioni di legge che, a fronte della prova di un certo fatto, impongono al giudice di dare per provato un ulteriore fatto. Ai sensi dell’art. 2728 c.c. “le presunzioni legali dispensano da qualunque prova coloro a favore dei quali esse sono stabilite. Contro le presunzioni sul fondamento delle quali la legge dichiara nulli certi atti o non ammette l’azione in giudizio non può essere data prova contraria, salvo che questa sia consentita dalla legge stessa”.

Le presunzioni legali si distinguono a loro volta in:

  • presunzioni legali assolute (c.d. iuris de iure) che non ammettono la prova contraria e di cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale per evidente contrasto con l’art. 24 Cost.;
  • presunzioni legali relative (c.d. iuris tantum) che ammettono la prova contraria.

Ebbene, dal punto di vista processuale, le presunzioni legali incidono sulla distribuzione tra le parti dell’onere probatorio, dispensando il soggetto in favore del quale sono stabilite dal dimostrare il fatto presunto, a condizione che provi il fatto indiziante. In altre parole, trattandosi di presunzioni “pro fisco”, l’Amministrazione finanziaria è tenuta a fornire la prova del fatto indiziante, rimanendo dispensata dalla prova del fatto presunto. Si verifica, dunque, un alleggerimento dell’onere probatorio in favore del Fisco e l’inversione dell’onere della prova in capo al contribuente. Quest’ultimo, infatti, deve dimostrare che il fatto noto non corrisponde al vero oppure che il fatto noto non si è applicato al caso di specie;

  1. la definizione di presunzioni semplici è data, invece, dall’art. 2729 c.c., comma 1, che così statuisce: “le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti”.

In sostanza, le presunzioni semplici non hanno, da sole, la capacità di consentire all’Amministrazione finanziaria di rettificare il reddito di un contribuente, ma necessitano di essere rinforzate dal riscontro di ulteriori elementi indiziari a conforto della tesi presuntiva dell’Ufficio basata su quella presunzione che deve possedere i requisiti di gravità, precisione e concordanza. L’Amministrazione Finanziaria deve cioè svolgere ulteriori indagini fattuali volte a riscontrare altri indizi di prova che supportino, con i crismi della gravità, precisione e concordanza, la presunzione di maggior reddito.

Con le presunzioni semplici, dunque, si rispristina l’ordinaria regola del rapporto tributario, in base alla quale l’onere probatorio dei fatti costitutivi posti a fondamento della pretesa ricade sugli organi dell’Amministrazione Finanziaria che hanno emesso l’atto.

In definitiva, si può affermare che si hanno delle presunzioni semplici qualora vi sia un insieme di elementi presuntivi che porta ad un certo grado di probabilità del ragionamento presuntivo. In altre parole, quando ci si pone nel quadro delle presunzioni semplici, è necessario che non esista un’altra possibilità dotata di uguale verosimiglianza, perché l’accertamento possa ritenersi sufficientemente attendibile.

A questi due tipi di presunzione, occorre aggiungere le cosiddette:

  1. presunzioni giurisprudenziali, le quali consistono in una manipolazione giurisprudenziale della distribuzione degli oneri probatori previsti dalle norme generali. Dunque, mediante le presunzioni giurisprudenziali, di fatto, la giurisprudenza inverte la regola generale in materia di distribuzione dell’onere della prova laddove, pur non essendo in presenza di una presunzione legale, ex 2728 c.c., è il contribuente a dover fornire prova idonea a vincere la presunzione.

Tra le presunzioni giurisprudenziali più comuni e note, si annoverano:

  • la presunzione giurisprudenziale secondo cui nelle società di capitali a ristretta base azionaria, si presume che i maggiori utili “in nero” conseguiti dalla società a ristretta base azionaria si devono intendere “percepiti” dai soci. Infatti, la Cassazione ha elaborato un orientamento che associa la rideterminazione del reddito societario accertato dall’Agenzia, con l’attribuzione dello stesso pro quota ai soci. Tuttavia, è (rectius era) ammessa la possibilità di superare la presunzione di cui sopra, da un lato, per il socio, dimostrando la sua totale estraneità alla gestione dell’impresa e dall’altro permettendo di provare – lato società – che l’extraprofitto sia stato accantonato o reinvestito (Cass. n. 32959/2018 e n. 37193/2021). In particolare, i giudici di legittimità per lungo tempo hanno ritenuto che:

in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società a ristretta base sociale, è legittima la presunzione di distribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non siano stati fatti oggetto di distribuzione, ma siano stati, viceversa, accantonati dalla società ovvero da essa reinvestiti”, (Cass. n. 32959/2018 e n. 19442/2021).

Nello stesso senso si sono espressi i giudici di legittimità con la sentenza n. 231 del 24 febbraio 2020, disponendo che:

“È principio consolidato quello in base al quale la “ristretta base azionaria” ovvero la “base familiare” siano ipotesi idonee a configurare il fondamento della presunzione di attribuzione pro quota ai soci dei maggiori utili accertati in capo alla società”.

Ed ancora, l’ordinanza n. 5575 del 21 febbraio 2022 così afferma:

“(…) l’accertamento di utili extracontabili in capo alla società di capitali a ristretta base sociale consente di inferire la loro distribuzione tra i soci in proporzione alle loro quote di partecipazione salva la facoltà per gli stessi di fornire la prova contraria costituita dal fatto che i maggiori ricavi non siano stati fatti oggetto di distribuzione, ma siano, invece, accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti (cfr., tra le tante, Cass. n. 26248 del 2010, Cass. n. 8473 del 2014, Cass. n. 27049 del 2019). Partendo dal dato di esperienza che nella generalità dei casi le società di capitali a ristretta base partecipativa sono composte da soci legati da rapporti di coniugio o di stretta parentela, il che comporta un elevato grado di compartecipazione dei soci alla gestione della società e al reciproco controllo tra i soci medesimi, questa Corte ha avuto modo di completare il principio sopra enunciato precisando che la presunzione di distribuzione degli utili extrabilancio può essere vinta dal contribuente dimostrando l’estraneità alla gestione e alla conduzione societaria”.

  • Ed ancora, un’ulteriore nota e comune presunzione giurisprudenziale è quella secondo cui secondo cui per i componenti negativi di reddito d’impresa l’onere probatorio competerebbe al contribuente. Sul punto si evidenzia che la Cassazione, con un consolidato e granitico orientamento, ha sostenuto negli anni che, nella determinazione del reddito d’impresa, l’onere di provare la sussistenza delle componenti del reddito e dei requisiti di certezza e determinabilità delle stesse “incombe sull’amministrazione finanziaria per quelle positive e sul contribuente per quelle negative”. In altri termini, in tema di riparto della prova, nel caso di accertamento di maggiori ricavi o compensi (componenti positivi), spetta all’Amministrazione l’onere della prova; al contrario, nel caso in cui l’Amministrazione contesti costi indeducibili, l’onere della prova si sposta in capo al contribuente. Tali conclusioni generano da un errore di fondo che assimila la deduzione di un costo come fatto costitutivo del diritto alla sua deduzione, sempre nell’ottica dell’art. 2697 c.c.

Sul tema, a conferma di quanto appena detto, si è espressa la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 28322 del 5 novembre 2019, con la quale i giudici di legittimità hanno così disposto:

“In tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel quadro dei principi generali che governano l’onere della prova, spetta all’amministrazione finanziaria dimostrare l’esistenza di fatti costitutivi della maggiore pretesa azionata, fornendo quindi la prova di elementi e circostanze a suo avviso rilevatori dell’esistenza di un maggiore imponibile, mentre grava sul contribuente l’onere della prova circa l’esistenza dei fatti che danno luogo ad oneri e/o a costi deducibili, ed in ordine al requisito dell’inerenza degli stessi all’attività professionale o d’impresa svolta”.

Nello stesso senso si è espressa la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 3227 del 2 novembre 2022 che, seppur successiva alla novella legislativa di cui si argomenterà nel prosieguo (art. 7, comma 5-bis, D. Lgs. n. 546/92), ha comunque applicato tale presunzione giurisprudenziale, così statuendo:

“(…) in tema di imposte sul reddito di impresa, ai finiti della imputabilità dei ricavi, delle spese e degli altri componenti positivi e negativi del reddito, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, articolo 109, deve tenersi conto del momento in cui si verificano le due condizioni della “certezza” in ordine alla sussistenza e della “determinabilità” in ordine all’ammontare, della cui prova è onerata l’amministrazione finanziaria con riguardo ai componenti positivi (…), e il contribuente con riguardo ai componenti negativi (Sez. 5, Ordinanza n. 19166 del 06/07/2021)”.

Questa la situazione, in ambito tributario, prima della novella legislativa di cui all’art. 7, comma 5-bis D. Lgs. n. 546/92 che si commenta nel prosieguo.

 

  • Post riforma tributaria: il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D. Lgs. n. 546/1992 introdotto dalla L. n. 130/2022

L’art. 6 della L. n. 130/2022, entrata in vigore il 16 settembre 2022, ha modificato l’art. 7 D. Lgs. n. 546/1992 aggiungendo il comma 5-bis, in materia di onere probatorio.

La novella legislativa non solo ristabilisce le regole tradizionali in tema di onere probatorio, ma istituisce, altresì, un maggiore rigore sia nell’individuazione delle prove da parte dell’Amministrazione finanziaria sia nella valutazione delle stesse da parte del giudice tributario.

Il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D. Lgs. n. 546/1992 così dispone:

L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni.

Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati”.

Analizzando il testo normativo, la disposizione sembra potersi “scomporre” in due parti:

  • il primo periodo è relativo all’onere della prova sugli atti impositivi. Più nello specifico, il primo periodo del nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D. Lgs. n. 546/1992 prevede che l’Amministrazione deve provare i presupposti di fatto e di diritto della pretesa erariale. In altre parole, il Fisco deve fornire la prova dell’esistenza dell’an e del quantum dei fatti costitutivi dell’obbligazione tributaria.

È pacifico che la circostanza per cui l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa tributaria grava sull’ente impositore dipende dalla posizione che quest’ultimo ricopre nel processo, ossia dalla sua posizione di creditore nonché di attore sostanziale.

Tra le pronunce che hanno preso atto della novella legislativa in commento si cita la sentenza della Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Siracusa n. 3856 del 23 novembre 2022, con la quale i giudici di merito hanno così statuito:

La lettura esegetica dell’incipit del novellato comma 5-bis, articolo 7, del Dlgs 546/1992 non lascia spazio a diverse interpretazioni: “l’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato“. La prima considerazione indotta dalla lettura di questa alinea del comma citato è che la norma si risolve, inequivocabilmente, nell’introduzione nel processo tributario di una nuova regola autonoma sorta per dirimere le questioni in ordine al riparto dell’onere della prova, superando così la portata dell’articolo 2697 del codice civile e con esso la trasposizione, talora impropria, nel processo tributario di dinamiche essenzialmente privatistiche. In base alla nuova regola, dunque, è inequivocabile che sia l’Amministrazione Finanziaria che è tenuta a provare le contestazioni afferenti a tutte le tipologie di violazioni, a prescindere che si controverta di maggiori ricavi o minori costi nel regime d’impresa”.

Spetta, invece, al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati.

In altre parole, il contribuente deve provare i fatti che comportano una riduzione del carico fiscale, cioè i fatti posti a fondamento della richiesta di rimborso. Ciò perché, nelle controversie relative alle istanze di rimborso, la posizione di creditore nonché di attore formale e sostanziale è ricoperta dal contribuente e, pertanto, spetta a costui dimostrare il fatto costitutivo del suo diritto alla ripetizione, cioè l’eccedenza di pagamento;

  • il secondo periodo, invece, attiene al potere di annullamento del giudice tributario e i presupposti in tema di valutazione delle prove. Più nel dettaglio, il secondo periodo della novella legislativa individua i criteri di valutazione rimessi al giudice tributario nell’adozione della propria decisione nonché i presupposti per l’annullamento dell’atto tributario.

Ai sensi del nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D. Lgs. n. 546/1992, in caso di mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte dell’Amministrazione finanziaria, il giudice non può acquisire d’ufficio le prove. In altri termini, il giudice non può supplire alla mancanza di fondatezza o ad una prova insufficiente o contraddittoria, ma, in tale circostanza, ha il dovere di annullare l’atto impositivo.

Dalla lettura della normativa in esame emerge, inoltre, con chiarezza che l’onere probatorio si ha per non assolto non solo quando la prova “manca” o “è contraddittoria”, ma anche “se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione di sanzioni”.

In altre parole, la nuova disposizione normativa richiede una capacità dimostrativa della pretesa, con la conseguente limitazione dei poteri discrezionali del giudice nella sua valutazione.

Infatti, il nuovo comma chiarisce che il dovere del giudice di esprimere il suo “prudente apprezzamento”, ex art. 116 c.p.c., deve essere basato sulla verifica della sussistenza di una prova specifica, puntuale e circostanziata dei fatti contestati. Laddove tale prova manchi, allora il giudice dovrà annullare l’atto impositivo.

Più nello specifico, il giudice ha l’obbligo di dichiarare la nullità dell’atto impugnato qualora la prova della sua fondatezza sia:

  • mancante;
  • contraddittoria;
  • insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni.

Sul tema, a conferma di quanto appena detto, si è espressa la Corte di Giustizia Tributaria di Lecce con la recentissima sentenza n. 309/2023 depositata il 1 marzo 2023, con la quale i giudici di merito hanno così disposto:

“Nella seconda parte del secondo periodo, collocato in aggiunta (“e”) a quello precedente, si individuano i poteri della Corte di giustizia tributaria dicendo che essa “annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni”. In tal modo viene a emergere la prova della fondatezza dell’atto impositivo quale vizio dell’atto impugnato, la cui mancanza, contraddittorietà  o insufficienza comporta per la Corte di giustizia tributaria l’annullamento dell’atto impugnato.

Nel connotare il deficit probatorio che conduce all’annullamento dell’atto la norma si dilunga nello specificare che la “mancanza”, la “contraddittorietà” o l’”insufficienza” debbono essere correlate alla dimostrazione, in modo circostanziato e puntuale, delle ragioni su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni, impegnando così l’organo giudicante alla valutazione del risultato istruttoriamente acquisito dalla prova incombente sull’Amministrazione, “comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale””.

Ebbene, alla luce delle suesposte considerazioni, si hanno tutti gli elementi per valutare l’impatto che la novella legislativa in commento ha avuto in materia di riparto dell’onere probatorio tributario.

Ciò posto, volendo schematizzare la portata applicativa e gli effetti del nuovo art. 7, comma 5-bis, del D. Lgs. n. 546/1992, si precisa quanto segue:

  • la nuova normativa non ha alcun effetto sulle presunzioni legali che, dunque, continuano a mantenere la loro validità e per le quali, pertanto, è valida l’inversione dell’onere della prova. Tanto è stato confermato dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 31878 del 27 ottobre 2022, con la quale i giudici di legittimità hanno così chiarito:

“È appena il caso di sottolineare che il comma 5 bis dell’art. 7 d.lgs. n.546/1992, introdotto con l’articolo 6 della legge n. 130/2022, ha ribadito, in maniera circostanziata, l’onere probatorio gravante in giudizio sull’amministrazione finanziaria in ordine alle violazioni contestate al contribuente, per le quali, come nel caso di specie, non vi siano presunzioni legali che comportino l’inversione dell’onere probatorio;

  • la nuova normativa lascia invariata l’applicabilità delle presunzioni semplici per le quali, una volta assolto da parte dell’Amministrazione l’onere probatorio mediante l’uso di indizi gravi, precisi e concordanti, spetterà, in seguito, al contribuente fornire la prova contraria;
  • la nuova normativa modifica la portata applicativa delle presunzioni giurisprudenziali (largamente utilizzate in ambito tributario) che, del tutto prive di giustificazione, non solo attribuivano un onere di prova nei confronti di un soggetto (il contribuente) che non ne doveva risultare onerato ma, inoltre, attribuivano un onere di prova generalmente negativo in capo a quest’ultimo.
  1. Osservazioni conclusive

Tirando le somme di quanto fin qui esposto, non può non rilevarsi che le novità in materia di onere probatorio introdotte con la L. n. 130/2022 hanno permesso di riequilibrare il rapporto tra il fisco ed il contribuente.

Infatti, l’obiettivo dell’intervento normativo sembra convergere verso un unico concetto di onere della prova, in base al quale chi contesta deve provarne la fondatezza: pertanto, in casi di accertamento, l’Amministrazione dovrà provare in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato così come, del pari, spetterà al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso (quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati). Al contempo, il giudice dovrà annullare l’atto impugnato, se la prova della sua fondatezza è mancante, contraddittoria o insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni.

Tale intervento si è reso necessario per far fronte, principalmente, all’incalzare delle presunzioni giurisprudenziali che, del tutto prive di giustificazione, non solo attribuivano un onere di prova nei confronti di un soggetto (il contribuente) che non ne doveva risultare onerato ma, inoltre, attribuivano un onere di prova generalmente negativo in capo a quest’ultimo. Da tanto ne discende che l’unica ipotesi di inversione dell’onere della prova prevista dal nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D. Lgs. n. 546/1992 è quella delle presunzioni legali relative.

 

Lecce, 21 marzo 2023

Avv. Maurizio Villani

Avv. Marta Zizzari

Studio Tributario Villani

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e-mail avvocato@studiotributariovillani.it

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