Lo scorso 14 giugno 2023 è stata presentata dal Ministro della Giustizia Carlo Nordio la bozza del disegno di legge sulla riforma della giustizia recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento giudiziario. Interpretazione autentica dell’articolo 9 della legge 10 aprile 1951, n. 287”.
La bozza del disegno di legge – che si compone di otto articoli – interviene in più direzioni.
Sul versante del codice penale, l’art. 1 del disegno di legge in esame prevede, da un canto, l’abrogazione dell’art. 323 c.p. (Abuso d’ufficio) al fine di superare l’anomalia conseguente allo squilibrio tra condanne e iscrizioni delle notizie di reato; e, dall’altro, il ridimensionamento della fattispecie di reato di cui all’art. 346 bis c.p. (Traffico di influenze illecite), limitandone la punibilità a condotte particolarmente gravi ed eliminando l’ipotesi di millantato credito.
Sul versante del codice di procedura penale, le modifiche proposte dall’art. 2 del disegno di legge in esame incidono su molteplici ambiti. Al dichiarato «scopo di rafforzare la tutela del terzo estraneo al procedimento» si interviene, dapprima, in materia di intercettazioni, vietando la pubblicazione, anche parziale, del contenuto delle intercettazioni in tutti i casi in cui quest’ultimo non sia «riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento» (nuovo art. 114, comma 2 bis, c.p.p.); escludendo il rilascio di copia delle intercettazioni di cui è vietata la pubblicazione ai sensi del predetto art. 114, comma 2 bis, «quando la richiesta è presentata da un soggetto diverso dalle parti e dai loro difensori» (nuovo art. 116, comma 1, c.p.p.); ed obbligando il pubblico ministero a stralciare dai cd. brogliacci, espressioni lesive della reputazione o riguardanti dati sensibili di «soggetti diversi dalle parti» (nuovo art. 268, comma 2 bis, c.p.p.).
Infine, per quello che più ci interessa, la bozza del disegno di legge sostituisce l’art. 593, comma 2, del c.p.p. escludendo di fatto il potere del pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento per i reati di cui all’articolo 550, commi 1 e 2, c.p.p..
Il Disegno di legge, invero, prevede che “all’articolo 593, al comma 2, il primo periodo è sostituito dal seguente: «Il pubblico ministero non può appellare contro le sentenze di proscioglimento per i reati di cui all’articolo 550, commi 1 e 2.».
Si modifica, pertanto, la disciplina dei casi di appello del pubblico ministero, che attualmente consente d’impugnare le sentenze di proscioglimento, stabilendo che l’organo di accusa non possa appellare le sentenze di proscioglimento per i reati per i quali si procede con di citazione diretta, indicati all’art. 550 del Codice di procedura penale (contravvenzioni, delitti puniti con la pena della reclusione non superiore nel massimo a quattro anni o con la multa, sola o congiunta alla pena detentiva e altri reati specificamente indicati).
Restano appellabili le decisioni di proscioglimento per i reati più gravi e le sentenze di condanna per i reati a citazione diretta nei casi in cui l’ordinamento vigente consente l’appello delle sentenze di condanna da parte del p.m. (per esempio: mancato riconoscimento di circostanze ad effetto speciale; riqualificazione del reato).
Già con la Legge n. 46 del 20 febbraio 2006, emanata su iniziativa del deputato On. Pecorella, si stabiliva che il pubblico ministero e l’imputato potevano proporre appello contro le sentenze di proscioglimento soltanto nelle “ipotesi di cui all’articolo 603, comma 2, se la nuova prova è decisiva”.
Il provvedimento stabiliva, inoltre, l’obbligo per il pubblico ministero, al termine delle indagini, di formulare richiesta di archiviazione quando la Corte di Cassazione si è pronunciata in ordine alla insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, ai sensi dell’articolo 273, e non sono stati acquisiti, successivamente, ulteriori elementi a carico della persona sottoposta alle indagini.
Già il Presidente della Repubblica, però, aveva rinviato il provvedimento normativo alle Camere con messaggio motivato ai sensi dell’art. 74 della Costituzione.
Successivamente la Corte Costituzionale, con sentenza n. 26/2007, si è pronunciata sulla citata legge dichiarando l’illegittimità costituzionale:
- dell’art. 1 nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva;
- dell’art. 10, comma 2, nella parte in cui prevede che l’appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della medesima legge è dichiarato inammissibile.
Ebbene, il Disegno di Legge in esame sembra proprio riprendere alcuni aspetti della L. Pecorella, seppure con le dovute precisazioni.
Per analizzare a fondo l’ubi consistam di una così dirompente modifica legislativa, è opportuno rifarsi alle stesse dichiarazioni del Ministro Nordio, il quale recentemente ha affermato come si rendesse necessario riformare completamente la disciplina dell’appello da parte della Pubblica Accusa, ritornando ai dettami della legge Pecorella, dichiarata poi dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale.
Tuttavia, lo stesso Ministro della Giustizia Nordio ha ribadito l’importanza che una legge che riprenda i principi della Legge Pecorella, sia rimodulata per evitare una nuova pronunzia di incostituzionalità, anche se tale evenienza sembrerebbe ormai del tutto improbabile, essendo intervenuti dei fatti nuovi, come ad esempio il principio che una persona non può essere condannata se non al di là di ogni ragionevole dubbio.
Sempre il Ministro Nordio ha posto poi l’attenzione su un aspetto importante, ossia sul come sia paradossale che una sentenza di assoluzione possa essere riformata in pejus con un procedimento puramente cartaceo (come quello di appello) di brevissima durata che può modificare il precedente giudizio e condannare una persona che era stata assolta alla pena della reclusione.
Ciò posto, analizzando il testo del Disegno di legge, si può notare come il suddetto provvedimento statuisca che per i reati per i quali è previsto che si proceda con la citazione diretta a giudizio – e non con l’ordinario svolgimento dell’udienza preliminare – il Pm non possa proporre il gravame dell’appello avverso le sentenze di proscioglimento. È se come l’originaria semplificazione procedimentale ( e riduzione delle garanzie connesse all’udienza preliminare) che i soggetti che hanno commesso uno dei reati di cui all’art. 550 c.p.p. “subiscono” sia ragionevolmente compensata dall’impossibilità di impugnazione da parte dell’accusa delle pronunce di assoluzione.
È evidente, inoltre, come il disegno di Legge che si commenta sia legato a filo doppio alla riforma del processo penale approvata da pochi mesi e che, tra le tante modifiche al sistema processuale, ha previsto l’ampliamento dei reati a citazione diretta e per i quali ora ci sarà la limitazione dell’appello delle sentenze di assoluzione da parte del Pm.
Il criterio di delega risulta finalizzato ad estendere il numero dei reati per i quali si procede a citazione diretta, con corrispondente riduzione dell’area dell’udienza preliminare. La scelta del Parlamento non è stata quella di estendere indiscriminatamente tale esercizio dell’azione penale ai reati puniti con pena edittale detentiva non superiore nel massimo a sei anni.
La scelta espressa nella legge delega è stata invece quella di ampliare il novero delle eccezioni già previste nel secondo comma dell’art. 550 c.p.p. sulla base di due criteri: quello formale, per cui deve trattarsi di delitti puniti con pena edittale detentiva non superiore nel massimo a sei anni, quindi delitti puniti con un massimo edittale di pena detentiva ricompreso tra quattro e sei anni, anche se congiunta alla pena della multa, e quello sostanziale della non complessità di accertamento.
In base a tali criteri, dunque, si dovrà procedere a citazione diretta per i reati puniti con pena edittale massima compresa tra i quattro e i sei anni, sempre che non presentino rilevanti difficoltà di accertamento.
In attuazione della delega, sono stati individuati una serie di delitti i quali, di norma, non richiedono indagini complesse. Si sono considerati tali, per esempio, i reati che avvengono in pubblico, di fronte ad una pluralità di testimoni, come gli atti osceni in luogo pubblico aggravati (art. 527 comma 2 c.p.) o il danneggiamento di cose mobili o immobili in occasione di manifestazioni pubbliche (art. 635 comma 3 c.p.) l’apologia di delitto (art. 414 c.p.) e l’istigazione a disobbedire alle leggi (art. 415 c.p.).
Vi rientra, altresì, per quello che più ci interessa, il reato di omessa dichiarazione dell’imposta sui redditi o sul valore aggiunto, qualora essa sia superiore a 50.000.
Tutto ciò chiarito sulle importanti modifiche che interesseranno il giudizio di appello per i reati previsti dall’art. 550 cpp, è bene ricordare che parte della dottrina si è già dimostrata contraria alla novella in esame.
In primo luogo, sono sorte talune preoccupazioni in merito al fatto che la limitazione dell’appellabilità delle sentenze di assoluzione da parte della pubblica accusa sembrerebbe creare una disparità di trattamento, una sorta di “doppio binario” all’interno del sistema processuale che non troverebbe alcuna giustificazione razionale.
In secondo luogo, la reintrodotta inappellabilità da parte dell’accusa per le sentenze di proscioglimento per i reati ex art. 550 cpp determinerebbe una asimmetria tra il condannato in prima istanza che ha di fronte a sé due ulteriori gradi di giudizio e il soggetto condannato per la prima volta in appello, il quale vede ristretto il proprio diritto all’impugnazione, avendo quale unico mezzo il ricorso per Cassazione.
Si ritiene tuttavia di non condividere tali considerazioni critiche. A parere di chi scrive, invece, la novella legislativa va salutata con favore, perlomeno per due motivi.
Innanzitutto, l’inappellabilità del Pm non riguarda indiscriminatamente tutti i reati, ma solo le fattispecie criminose connotate da minore gravità (come appunto il reato di omessa dichiarazione) e che non richiedono un accertamento processuale particolarmente oneroso.
In secondo luogo, il divieto di appello del Pm può considerarsi una chiara espressione del principio di colpevolezza, che pervade (o dovrebbe pervadere) tutto il sistema penale. È del tutto razionale che il risparmio di spesa che lo Stato ottiene nell’accertamento processuale dei reati di cui all’art. 550 c.p.p. sia controbilanciato dalla garanzia per l’imputato che, una volta assolto in primo grado, non debba poi subire una sentenza di condanna in un giudizio di secondo grado, meramente cartolare.
La novella sembra ribadire il legame sussistente tra la presunzione di innocenza e la necessità che essa, se superata, lo sia in maniera particolarmente pregnante, “beyond any reasonable doubt”, ossia “al di là di ogni ragionevole dubbio”.
In questo modo, quando non si riesca a superare tale presunzione già nel primo grado, si inibisce la possibilità di raggiungere tale prova nei gradi successivi, perché si tratterebbe comunque di una “prova” non abbastanza forte e pregnante, data la sua difficoltà di superare la presunzione di innocenza iniziale.
A parere di chi scrive quindi è opportuno dare una possibilità al Disegno di legge dello scorso 14 giugno, perché può considerarsi come un’opportunità per estendere le garanzie per gli imputati, soprattutto qualora si tratti di reati ritenuti, secondo l’id quod plerumque accidit, meno gravi, come quello di omessa dichiarazione, in ossequio ai principi di extrema ratio e frammentarietà del diritto penale.
Lecce, 26 giugno 2023
Avv. Alessandro Villani
Dott.ssa Ludovica Loprieno